Ridere è un’arte ma lo abbiamo capito troppo tardi.
A lungo prigionieri di quella connotazione sacrilega che nel Nome della Rosa viene
attribuita alla risata da Jorge da Burgos ignorando, forse inconsapevolmente, che “Il riso è
proprio dell’uomo” come dimostra l’acume di Guglielmo da Baskerville, ce ne siamo resi
conto, quasi meravigliati, grazie al premio Nobel che nel 1997 fu insignito a Dario Fo
perché «seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la
dignità agli oppressi».
La scelta dell’Accademia svedese divise, allora, il mondo della letteratura italiana mentre,
più semplicemente, di quel riconoscimento Fo ha commentato «Con me hanno voluto
premiare la Gente di Teatro».
Sì, quel teatro per il quale, agli inizi del Novecento, il grande attore comico, Eduardo Scarpetta, aveva dedicato la sua vita, ora celebrata al cinema nella pellicola di Mario Martone. L’interpretazione di Toni Servillo rievoca, oggi, quella che viene considerata la prima causa sul diritto d’autore in Italia: la parodia de “La figlia di Iorio”, tragedia di Gabriele D’Annunzio, che costò a Scarpetta una denuncia per plagio e contraffazione.
Parodia. Plagio. Contraffazione.
Anche nel diritto i nomi rivelano l’essenza e la realtà delle cose: in fondo la citazione di Dante “nomina sunt consequentia rerum” trae origine proprio da un passo delle Istituzioni di Giustiniano.
Parodia o plagio? Parodia o contraffazione? Questo è il dilemma al centro della vicenda processuale che vedrà la vittoria-assoluzione del comico napoletano e che rappresentò, come testimoniano le cronache del tempo, un precedente importante anche per le risate strappate ai presenti, giudice compreso.
L’idea di Scarpetta di portare in scena la parodia della tragedia dannunziana fu, in un certo qual modo, sollecitata da due eventi:
- il successo riscosso dalla tragedia del “vate immaginifico”, in occasione della prima rappresentazione al Teatro Lirico di Milano, la sera del 2 marzo 1904,
- il successo conseguito da Scarpetta nella rappresentazione al Teatro Valle di Roma de La geisha, parodia di un'opera di Sidney Jones, il 6 febbraio
del 1904.
Scarpetta pensò di scrivere un'altra parodia che, sull'onda del successo dell'opera dannunziana, ne prendesse in giro gli aspetti enfatici e drammatici: nacque così il copione de Il figlio di Iorio capovolgendone la trama e trasformando gli interpreti maschili in femminili e viceversa. Peraltro, già in un'altra occasione, Scarpetta aveva messo in scena la parodia de La bohème, apprezzata anche da Puccini, presente allo spettacolo.
Insomma i precedenti non mancavano; tuttavia D'Annunzio, temendo che la parodia di
Scarpetta avesse ripercussioni negative sulle rappresentazioni della sua opera, gli negò
last minute il permesso scritto per la messa in scena de Il figlio di Iorio, annunciato con
un telegramma quando ormai era troppo tardi per sospendere lo spettacolo.
Fu così che il 3 dicembre del 1904 al Teatro Mercadante di Napoli andò in scena il Figlio di
Iorio ma all'inizio del secondo atto, al momento dell'entrata in scena, Scarpetta fu costretto
a far calare il sipario a causa degli schiamazzi del pubblico di parte dannunziana.
Il resto è cronaca giornalistica e, poi, giudiziaria.
La querela per plagio e contraffazione da parte di Marco Praga, direttore generale della
SIAE, in nome della stessa società e per conto del socio Gabriele D'Annunzio, fu mossa
da motivi economici, come gli eredi di Scarpetta e D’Annunzio ebbero modo di chiarire a
distanza di anni.
Ben presto andò in scena un altro genere di spettacolo, quello celebratosi al Tribunale di
Napoli, in occasione del processo: a difesa di Scarpetta si schierarono nel collegio difensivo gli avvocati Francesco Spirito e Carlo Fioravante - la cui arringa viene ricordata non solo come lezione di oratoria forense ma anche come eccezionale contributo di critica teatrale e letteraria per la sottile ed acuta analisi su temi quali l’ironia, la parodia, il plagio e la contraffazione - come periti di parte, due illustri intellettuali, Benedetto Croce e il critico
siciliano Giorgio Arcoleo, l’allevo più brillante di Francesco De Sanctis.
Come era prevedibile, il processo ebbe un’eco internazionale e mentre la stampa italiana
si mostrò più favorevole a D’Annunzio, quella americana e il francese “Le Figaro” si
dichiararono pro-Scarpetta.
Lo show giudiziario si concluse, fortunatamente, con la consacrazione della parodia quale
“alta forma di produzione artistica”, come la definì il pubblico ministero nella sua
requisitoria, che “risponde ad un bisogno vivissimo dello spirito umano; onde ben fu detto:
«la parodia è nell’arte, perché è nella vita»”.
Il ragionamento logico-giuridico posto a fondamento della decisione ruota intorno al
concetto di parodia intesa come “travestimento burlesco di opera seria: carmen ad alterius
imitationem compositum” e che in tal senso va considerata come “opera autonoma,
indipendente e lecita che non può mai essere ragione di punibilità sotto forma di
contraffazione”.
In Collegio nell’esaminare se “possa e per quanto ravvisarsi” contraffazione nella parodia,
ne ricorda le diverse vicende storiche: “nata nella Grecia, fin dagli antichissimi tempi,
coltivata con amore e cura grandissima in Italia ed in Francia, imperocchè intimamente
rispondente allo spirito di questi popoli, avversata sempre dai letterati, che mal tolleravano
la parodia delle proprie opere; proscritta con decreto di Luigi XV, emanato, per rendere
favore a Voltaire, e resa novellamente lecita con decreto dello stesso re, raggiunse
manifestazioni artistiche altissime, come nelle Le Nuvole di Aristofane, nella
Batracomiomachia tradotta da Leopardi, nel Don Quijote de la Mancha di Cervantes ed in
altre moltissime opere”.
Nell’assolvere Scarpetta dalla duplice accusa di contraffazione il Collegio osserva che “alla
consistenza dell’imputazione di contraffazione si richiedono tre ordini di condizioni: l’una
che s’ipotizza nella materiale ed effettiva contraffazione dell’opera altrui; l’altra che si
integra nell’animus lucri faciendi, imperocchè, se questo mancasse, potrebbe bene
configurarsi un atto capace di dar vita ad obblighi civili d’indennizzo, ma non già un atto
delittuoso, suscettivo di sanzioni penali; la terza condizione infine, che manchi, cioè, il
consentimento dell’autore dell’opera contraffatta o dei suoi aventi causa”.
La ripresa identica dell’opera parodiata infatti: “è condizione precipua della parodia: è
nell’essenza e nella finalità di questa, l’imitazione, a modello, dell’opera altrui, anzi la più
fedele imitazione è pregio tanto più alto della parodia, imperocché più geniale è più
faticoso è l’intento del parodista, quando provoca il riso e fa apparire il ridicolo, servendosi
di quegli stessi elementi, di quelle stesse situazioni, di quelle medesime forme, che ad altri
sono serviti per destare sentimenti di dolore e commozioni di terrore”.
Seguendo tale iter argomentativo, “la parodia è forma artistica, rispondente ai bisogni
intimi ed indistruttibili dell’umana natura, e quindi non reprimibile da alcuna potenza di
umano legislatore, giacchè la legge seconda i bisogni veri dell’uomo, ma non deve né può
contrastarli, salvo momenti di precaria ed incivile violenza”.
I giudici proseguono affermando che “il venir rilevando che una parodia abbia riprodotto
tutti o meno o più episodi dell’opera parodiata, ne abbia serbato tutte o meno le forme e le
espressioni, a nulla giova, giacché quelle somiglianze sono un pregio dell’opera e non
integrano punto la riproduzione, elevata a delitto, bensì sustanziano una autonoma forma
d’arte, meritevole essa stessa di protezione legale”.
In definitiva nel chiedersi “Quale sostanziale identità si può riscontrare in effetti tra due concezioni artistiche, di cui l’una provoca il riso e l’altra desta terrore?” si sottolinea che “se l’effetto è diverso per diverse virtù obbiettive della concezione, è chiaro che in mezzo a
quella apparente uniformità di situazioni avvi un intimo elemento, possibilmente inavvertito ed occulto, che ne trasforma l’anima e fa dell’una non già la copia servile dell’altra, bensì la geniale antitesi di questa. Quindi la parodia non è vera imitazione dell’opera parodiata, bensì sotto forma identica (e la maggiore identità è maggiore pregio) rivelasi antitesi sostanziale e profonda, individualità novella. Ma v’ha di più. Applicando le nozioni in ordine alla contraffazione si scorge che, dove in quella è caratteristico il difetto di una propria individualità, nella parodia invece è autonoma individualità; cioè la vis comica, che tutto ha intimamente trasformato; dove la prima è sfruttamento ingiusto del profitto, cui ha diritto l’autore dell’opera contraffatta, la seconda invece non menoma il profitto dell’autore dell’opera parodiata, bensì lo accresce”.
In tal senso, quindi, anche sotto il profilo economico “la parodia è una delle più efficaci
réclame dell’opera parodiata” quindi “la parodia, sia perché imita solo apparentemente
l’opera parodiata, e tale imitazione apparente non integra affatto la contraffazione punibile,
sia perché essa ha una propria individualità distinta da quella dell’altra ed anzi in antitesi
con questa; sia perché non sottrae, bensì consolida il profitto dovuto all’autore dell’opera
parodiata: essa è di liceità indiscutibilmente evidente ed in ogni caso. Adunque, fin dove è
vera parodia, è assurdo parlare di contraffazione”.
Id est D’Annunzio e la SIAE avrebbero dovuto ringraziare Scarpetta!
Ebbene, rispetto al contesto socio-culturale e giuridico dell’epoca (la sentenza del
Tribunale di Napoli è del 27 maggio 1908), di quali tutele oggi gode la parodia?
A distanza di oltre un secolo da quella decisione, sia l’ordinamento interno sia quello
europeo non manifestano significative evoluzioni come dimostra anche la giurisprudenza
in materia.
La consapevolezza che la parodia sia una elaborazione creativa tale da costituire opera
originale trova conferma nella pronuncia resa nel caso Tamaro c. Soc.Comix (Trib.Milano,
29 gennaio 1996): “La ripresa parodistica, intesa come antitesi sostanziale di altra opera
realizzata per finalità comiche o satiriche attraverso la conservazione della forma esteriore
ed il contestuale stravolgimento del senso dell’opera parodiata, non è classificabile tra le
c.d. elaborazioni creative, dovendosi invece considerare come opera autonoma tutelata
direttamente dal diritto d’autore, in quanto dotata di un’originalità e di un’individualità
proprie”.
Ed infatti, la parodia costituisce al tempo stesso una nuova opera e una ripresa dell’opera
parodiata. Se l’appropriazione degli elementi dell’opera originaria è necessaria per
riportare alla mente del pubblico l’opera parodiata stessa e il significato da essa espresso,
il contrapposto significato della parodia, tuttavia, fa sì che la trasformazione dell’opera
parodistica non si ponga in contrasto con l’opera originaria, bensì in dialogo con essa.
Peraltro, in ambito europeo, la Direttiva 2001/29/CE sull’armonizzazione di taluni aspetti
del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione (c.d. “Direttiva
InfoSoc”) riconduce la parodia a un’eccezione al diritto d’autore più che a un’opera
derivata autonoma tanto più che in Italia, l’eccezione “per parodia” prevista dall’art. 5 della
Direttiva - recepita con D.lgs. n. 68/2003 - non è mai stata espressamente recepita nella
normativa nazionale in materia di diritto d’autore atteso che la liceità della parodia viene
riconosciuta dalla nostra giurisprudenza, sia richiamando la libertà di espressione
riconosciuta dall’articolo 21 della Costituzione e la libertà dell’arte e della scienza prevista
dall’art. 33, sia invocando l’articolo 70 della legge sul diritto d’autore, che riconosce e
tutela le finalità di critica perseguite dall’utilizzatore.
Infatti: “L’opera di parodia, intesa a suscitare interessi e sensazioni nuovi rispetto a quelli
suscitati dall’opera parodiata e quindi in antitesi di significati con questa, assume un
autonomo e proprio rilievo ed originalità ed è capace di essere e diffondersi senza il
consenso dell’autore dell’opera parodiata”. Di conseguenza, dunque, la parodia non è
soggetta al consenso dell’autore dell’opera originale (Trib. Milano 13 luglio 2011, Trib.
Milano 1 febbraio 2001, Trib. Milano 15 novembre 1995, Trib. Milano 29 gennaio 1996).
La Corte di Giustizia Europea, adita per la prima volta ad interpretare il concetto di parodia
(art. 5, par. 3, lettera k, della Direttiva) ha escluso un’interpretazione eccessivamente
restrittiva ritenendo che la nozione di “parodia”, in assenza di una definizione legislativa,
debba essere intesa sulla base del significato abituale del termine nel linguaggio corrente.
Dunque, trattandosi di una nozione autonoma del diritto dell’Unione “la parodia ha come
caratteristiche essenziali, da un lato, quella di evocare un’opera esistente, pur
presentando percettibili differenze rispetto a quest’ultima, e, dall’altro, quella di costituire
un atto umoristico o canzonatorio” ciò significando che “La nozione di parodia […] non è
soggetta a condizioni in base alle quali la parodia dovrebbe mostrare un proprio carattere
originale, diverso dalla presenza di percettibili differenze rispetto all’opera originale
parodiata, dovrebbe poter essere ragionevolmente attribuita ad una persona diversa
dall’autore stesso dell’opera originale, dovrebbe essere incentrata proprio sull’opera
originale o dovrebbe indicare la fonte dell’opera parodiata” (sentenza del 3 settembre
2014, caso C-201/13).
Anche oggi, quindi, nessun plagio sarebbe configurabile, ancor più se si considera tale
l’illecito che commette chi si appropria dell’opera altrui spacciandola per propria, come
lamentato dal poeta romano Marziale il cui rivale era solito leggere in pubblico i suoi versi
spacciandoli per propri e di cui era ben conscio Scarpetta “La mia non è contraffazione, è
una parodia”.
Grazie al precedente originatosi dal caso, fu data un’impronta di legittimità a tutte le
successive parodie scongiurando la fine di un’importante categoria dello spettacolo come
lo stesso Scarpetta aveva avvertito “Condannando me, condannate un’intera forma
d’arte”.
Avv. Giuliana Gianna
Ascolta qui il prologo de Il figlio di Iorio
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